Biografia


Pare insolito consultare il sito di un medico veterinario e trovarvi la sua biografia dettagliata. La ragione di questo mio raccontare sta nel fatto che la scelta di curare attraverso l’omeopatia, è una scelta di vita ed è da questa vita che ho tratto ogni insegnamento.


L’INIZIO

Nacqui all’alba di una di una mattina di metà maggio; provate… alzatevi all’alba e scendete in un bosco, in un prato, in un ruscello al nascere del sole e ascoltate… era il 15 maggio…
L’infanzia è la nostra riserva emotiva, se continuiamo a vivere come bambini continueremo ad emozionarci, avremo ancora entusiasmo, avremo voglia di donare ricevere amore. I primi anni della vita sono quelli in cui anche il “pack” per un Inuit diviene il luogo della memoria e la bellezza diviene relativa poiché sono le nostre emozioni che lo renderanno unico, con un “transfer” che crea le basi alla territorialità e alla stanzialità e al “grande ritorno”. I miei erano insegnanti e vivevamo nella scuola; davanti vi era una strada pericolosa e molto trafficata, era un tabù del progresso, questa mi impediva di raggiungere altri bimbi, così me li inventai: “On “ e “Blek”, con loro passavo pomeriggi interi salendo nel monte Bacino dietro casa, erto e pieno di serpenti. Il giorno in cui mia madre mi presentò all’asilo fui aggredito come un invasore dai bimbi che già frequentavano, rimasi traumatizzato e non vi volli più andare e ciò mi ferì non poco.
“Marijn” era un bambino chiuso e selvaggio, i suoi abiti sapevano di fieno e di fumo, si alzava in piena notte, scendeva un monte e ne saliva un altro per raggiungere la scuola, scivolava per una mulattiera che d’inverno diventava una massa in movimento di sassi e argilla… Così il maestro, mio padre, disse alla madre di acquistargli un cavallo per venire a scuola. Lui divenne da un eroe alpinista, un cow-boy in erba, e il suo cavallo diventò il compagno delle mie mattine. Osservare questo silenzioso animale brucare l’erba e dormire in piedi, generò in me quella pulsione verso quegli esseri che condizionò tutta la mia vita. Dopo qualche anno, nel ’69, la famiglia acquistò una piccola tenuta dove andammo a vivere: mamma, papà, Lucilla la sorella più grande e il piccolo Gioacchino appena nato che grazie alla facilità con cui nostra madre lo mise al mondo, nacque “con la camicia”. L’inverno del ‘71 fu nevoso: il freddo, i bambini non se lo ricordano perché non lo patiscono, cadde un metro di neve e senza luce né riscaldamento passammo il primo vero inverno nella nuova dimora. Le primavere cominciarono a riempirsi di creature nel tanto tempo libero: eravamo figli di statali naturalisti, per noi la natura era scoperta e spettacolo, non una prigionia o un obbligo come per i figli dei contadini. Uccelli, cani, gatti, serpenti, moscardini, capre, conigli, polli, cicale e formiche, rane e tritoni… avevamo tutta una zona al limitare di fabbricati ad uso direi didattico sperimentale, con stalle, voliere, fienile, ove poter provare ogni tipo di attività: dalla costruzione di un arco, un acquario, una voliera, all’allevamento di qualsiasi animale della fattoria o della fauna locale. Un giorno non sapendo dove piazzare un grosso biacco, lo appoggiai nelle vasca da bagno, mia madre superò la sua riserva di pazienza e disse che proprio in casa “no”! Con tutto il posto che avevamo a disposizione…
A cinque anni mio padre mi regalò un libro di un autore tedesco sulla cura e l’allevamento degli uccelli canori, la voglia di comprendere il contenuto di quell’oggetto così prezioso mi portò ad imparare a leggere e a scrivere prima di iniziare la scuola. La voglia di conoscenza si manifestava agli albori, così gli anni della prima infanzia furono caratterizzati dalla libertà di sperimentare ogni azione con un limite minimo che era quello imposto dalle regole di una educazione basata sul rispetto verso gli altri, i propri doveri e la subordinazione, ma quella grande libertà permetteva a madre natura di imprimerci nell’esempio con tutte le sue regole universali e antiche, attraverso segni che si avvalevano solo di simboli. Non ricordo nessuna malattia, nessuna caduta, nessun dottore o dentista, non ho conosciuto un pediatra, e mai preso una medicina e non era fortuna, era equilibrio: le sfide erano quotidiane ma l’equilibrio tra il volere e il potere impediva ogni eccesso o carenza, fonti di conflitto. Ricordo il morbillo, che mi diede la forza di fare confessioni a mia madre di alcune piccole bugie. Il vivere costantemente sugli alberi, ad altezze vertiginose, saltare dai tetti, scendere dai cornicioni, gettarsi tra i rovi, scalare rupi, galoppare nudi tra le stoppie, cadere nel fiume innevato e rimanere con i vestiti inzuppati fino alla sera senza segno alcuno di raffreddamento. Mille esperienze di una vita ove la preponderanza dei fini impediva ai mezzi di essere imputati come cause bensì come motivi di integrazione, la fortuna una virtù dei deboli: non vi era ostentazione perché non vi era consapevolezza, vi era solo naturalità. Eppure i miei si fidavano, sapevano che dietro a quella mano che salutava da altezze di una dozzina di metri della rovere a strapiombo sulla rupe, vi era un braccio saldo, un corpicino, una mente di un bimbo che aveva in sé l’assenza di quel dubbio che genera l’incertezza e l’insicurezza che parte di sé, in quel caso la mano, non lo avrebbe tradito… mai…

Non finirò mai di ringraziare mia madre e mio padre per questi doni, è stata la loro fiducia a rinforzarmi, a rendermi indipendente attraverso un legame etereo di sincero amore e di sperimentare il mondo e le infinite rappresentazioni della realtà. “Primo”, il papà di tre figlie, mi portava con sé nella slitta di legno trainata dai buoi. Gli chiedevo: «come fanno i buoi a non ribellarsi a noi uomini così piccoli» e lui mi rispondeva «perché hanno occhi grandi e ci vedono grandi»… Sentivo il legno che si consumava sulla roccia strisciando, l’olezzo dolce dei buoi sudati, frammisto allo sterco e alla terra che si attorcigliavano nel passaggio in un connubio fertile e quando “Bistecca” mi portò coi muli nella macchia, avverti la fiducia che un essere muto mi stava donando nel suo passo saggio e calibrato tra i rovi e i sassi e dove saper sempre andare… Il “Mino” era un vicino di casa con 5 figli, la sera ci raccontava davanti al camino le storie del buio, di quello che la sua mente paurosa ci vedeva, delle ombre e delle figure nel bosco, ma nemmeno la sua suggestione mi impauriva, viaggiavo nell’oscurità, nei boschi fino a tarda notte, rientravo dallo stagno nel colmo della notte senza torcia ne timore, andavo a vedere le sue ombre e vi scoprivo un cespuglio, una vacca, un tronco secco. In casa avevo paura sì dei mostri, delle immagini di film ma la natura, quella no, mai. Era strana questa cosa, ma era già significativa… I veri lupi erano uomini…

L’INFANZIA FINIVA… ANCHE IL TEMPO

Quando nell’agosto del ’69 assistetti allo sbarco presunto degli americani sulla luna avevo cinque anni, nei mesi successivi chiedevo a mia madre: «perché non vi ritornano»? Capii col tempo che la mia domanda incessante era coerente e la risposta era perché non vi erano mai stati… A dodici anni vissi una profondissima crisi esistenziale, l’infanzia stava terminando, le avvisaglie della adolescenza ancora lontane, l’abbandono di quella età che tutti gli anziani e mio nonno “Valli” in particolare, mi dicevano essere “la più rimpianta, perché era la più bella”. Così quando compii otto anni e come amante dei numeri pari, (il 32 poiché era multiplo di 1,2,3,4,6,8,16,) cominciai tutte le sere prima di addormentarmi, come una preghiera, a ricordare quel giorno come fosse l’ultimo: tutto quello che avevo fatto e trascorso, un giorno di quelli degli otto anni che mi avrebbero portato ai sedici sommandosi agli altri 8.
Ma una sera vidi un film ungherese angosciante, ove in una famiglia di circensi ridotti in miseria dalla scarsa bravura, madre e figlia caddero vittime della ricatto e si prostituirono controvoglia per sopravvivere. Quando il padre le scopri, si consumò il dramma e le linciò a sangue. In quel momento di sconforto la mia mente intravide una fine, intuì che la fine fosse anche la estrema rinuncia alla dignità. Poi vidi un documentario di astronomia dove si affermava che il sole fosse estinguibile in tre milioni di anni ancora. Questi fattori esterni elaborati in uno stato umorale gettarono nello sconforto più totale in un nichilismo ed una inedia cosmica. Nulla pareva avere più un senso, la sera ricreava la paura del buio, per quel sole che finito avrebbe visto morire tutti gli uomini in un buio siderale come quando si estinsero i dinosauri: la paura della morte mi aveva sopraffatto e mi impediva pure di vivere in un paradosso che si auto-elide. Scoprivo la mia mortalità, scoprivo la mia materialità, e questo era sconvolgente per quanto rappresentasse il passaggio tra vita-morte-vita agli albori. Stavo compiendo il rito dionisiaco della vita, attraverso il sacrificio della duplice consapevolezza che da un lato mi opprimeva dalla immortalità dell’infanzia alla mortalità della vita che si offriva in una veste duplice e incontrovertibile, indissolubile.
Vissi mesi cupi, non sapevo cosa e a chi chiedere aiuto, avevo apparentemente tutto, una famiglia adorabile, fratelli, cugini, amici, alunno meritevole, un atleta prestigioso, le prime ragazzine mostravano sempre più interesse nei miei confronti, eppure ero divorato da un dramma legato alla mia esistenza che potevo (dovevo?) risolvere da solo. Volevo dormire con la luce a tutti i costi, fosse di un lampione o della stanza accanto; la luna piena era una gioia del cielo che arrivava come una cura miracolosa ad illuminare di luce riflessa del fratello sole che dimostrava ancora di esservi, mi trovavo in attimi schiavo del tempo nel quale nemmeno il suicidio, come atto volontario avrebbe giustificato l’azione semplice della decisione era una inedia più completa, il nulla, il vuoto.
Quindi, la mia scoperta di essere mortale sembrava destinata a non valutare la sua ambivalenza ma soltanto in quella tragica ineluttabile esperienza: devo morire perché sono mortale.
Mia nonna Palmina era una piccola donna arguta e concreta, intelligente e coraggiosa, viveva sei mesi all’anno d’estate in campagna con noi e la restante parte dell’anno in paese con lo zio Ettorino, disabile; era come le rondini, quando arrivava la nonna a Pasqua arrivava la buona stagione ed era festa, andavo con lei per i campi o mi insegnava a far l’orto o a custodire il pollame e anche a macellarlo, chiedendogli “scusa” prima, sempre. Una sera riuscii con lei a manifestare il mio disagio interiore, e chissà come, la vecchia saggia capì che qualcosa di profondo mi rendeva la vita inutile, la sua bocca proferì una parola magica: «ricordati che la morte ci prende tutti da vivi»! Penso a tutte le volte che nella mia vita, come sia bastata davvero una parola, un concetto, a cambiarmi il modo di ragionare e di vivere, come che vi sia qualcosa di magico, che lo abbia cercato o lo abbia trovato sul mio cammino come perle, ma di sicuro quello che mi disse la nonna ha davvero sconvolto la mia esistenza di allora.
Così fu, ecco, l’appiglio, l’argine, il bordo del baratro, la circonferenza del pozzo, la solida base alla vita, ecco la compiutezza aristotelica e il dramma dell’Highlander condannato all’immortalità ora in un attimo svelare l’incantesimo e rinascere con una nuova consapevolezza, in un gioco a due vie, dove il limite della morte sancisce la regola prima: l’accettazione della regola da il via al gioco e lo rende ogni giorno così unico perché è la regola che vi imprime il limite il margine e la dimensiona: da allora fu tutta vita, non vi furono mai più paure e angosce, il rito iniziatico alla vita nacque dall’umiltà dell’accettazione della regola, ed è ancora questa umiltà che l’uomo descrive ma non frequenta, che condiziona la sua stessa esistenza e che invece di comprendere come parte integrante, vuole a tutti i costi svelare attraverso una razionalizzazione che lo rende vano.
Dopo quel momento inizia la danza della mia vita, quel correre, respirare, ridere, scoprire e amare: “C’è chi ha paura di vivere, figuriamoci se ha il coraggio di morire”…
Un giorno con tutti i miei meravigliosi e adorati fratelli, andammo in cima a un monte con un dimesso parapendio che un amico ci aveva lasciato: Gioacchino era paracadutista della Folgore e provò per primo a inseguire il vento e a lanciarsi nel vuoto. Dopo diversi tentativi vi riuscì e rimanemmo tutti a bocca aperta e planò fino in fondo valle. Poi toccò a me e ricominciammo con la rincorsa e alla fine decollai anch’io. A metà della discesa incauta con il minimo delle nozioni più istintive che altro, a qualche decina di metri di altezza entrando in un’area aperta, incappai in una termica che mi trascinò verso l’alto: la sensazione di sollevamento si trasformò in un “distacco”, in una “non appartenenza”, nell’abbandono… in una frazione di secondo avvertii la extraterraneità, la dimensione ultraterrena, il non ritorno… Fu un’altra di quelle esperienze che ti segnano la vita poiché rapportano la nostra piccola esistenza e la nostra materialità. Posso immaginare cosa viva un astronauta, così come quando Giordano Bruno, ipotizzò prima e affermò dopo che come ogni punto fosse centro, i punti infiniti del cosmo fossero altrettanti centri: gli ecclesiasti erano impreparati ad affrontare argomenti frutto del pensiero scientifico così destabilizzanti e per questo fu bruciato vivo, come eretico.

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI

All’Università si parlava di me per la insubordinazione, non ero né politicizzato né schierato in nessun modo, ero semplicemente me stesso: né servo, né padrone, studiavo per me, né per la laurea né per i professori. Un giorno durante una interrogazione di chimica finita male nonostante mi fossi applicato secondo il mio sapere, lanciai il cancellino verso il docente per un suo disappunto, si imbestialì e pagai non poco l’errore, ma ciò nel tempo mi fortificò. Ero un mediocre come studente, ma con espressioni di curiosità e di osservazione che lasciavano presagire una possibile motivazione. I primi segni, le prime insofferenze ad un modello statistico legato alla casualità, si verificarono durante gli ultimi corsi di lezioni. Nessun corso intraprese mai una etica della medicina, non ci insegnarono mai, cosa fosse la malattia davvero, nemmeno l’effetto placebo, nulla. Le Malattie Infettive erano un corso articolato e impegnativo, suddiviso in molti sotto-esami ma solo la malattia microbico-infettiva pareva avere una causa, un effetto e una cura possibile, poiché il nemico era tangibile, aveva un nome e un cognome: il germe. La malattia pareva quindi essere il semplice risultato di un aggressione, un contagio, ove la dose infettante era svincolata dal suo contesto stesso e il disagio era quindi provocato dall’aggressione.
Il tanto blasonato “stress” diveniva un fenomeno alla moda che non spiega in realtà nulla se lo si considerava privo di caratterizzazioni, poiché tutto è stress per tutti, ma per qualcuno no, il superstite: c’era qualcosa che non quadrava. Le molteplici espressioni della malattia colta come elemento svincolato dalla individualità cominciarono a creare un fermento per una reazione contraria ai dogmi di una scienza basata sulla casualità o alla mutazione casuale di un gene impazzito: «no, non ci sto»! Erano i primi segnali di insurrezione a quegli esempi e quegli insegnamenti ancora esistenti solamente come sensazioni che la salute e la malattia avessero altre implicazioni e la semplice descrizione canonica e accademica fosse troppo spesso speculativa e talvolta alcuni paradossi epidemiologici non spiegassero fenomeni comunemente osservabili. Fu anche così che durante l’interrogazione di Anatomia Patologica Speciale, un vero un limite insormontabile, il mio onesto dubbio intellettuale si rivelò durante l’interrogazione stessa: chiesi cioè conferma all’ipotesi di come la malattia si propagasse, in questo caso la Tubercolosi, da una fase all’altra senza nessun interessamento linfo-ematogeno in contraddizione allo sviluppo biologico del micobatterio stesso, dai complessi primari alle forme croniche isolate… Il professore accolse e confermò questo dubbio forse anch’egli per la prima volta, non considerò ciò un tentativo di divagazione, anzi mi promosse con un voto di merito…
Non sapevo nulla di Hamer e della Medicina Biologica, avevo solo senso critico e libertà, eppure le giuste mie osservazioni ponevano questioni che esulavano dalle semplicistiche spiegazioni casuali: di certo il batterio non si propagava col sangue, non era necessario perché non vi è propagazione ma semplicemente colonizzazione su substrati morti, ogni tipo di saprofita non è altro che l’indice di una diversa conflittualità e poiché le malattie sono infinite, infinite pure devono essere le loro rappresentazioni per poter esprimere un disagio diverso: qualora vi sia del tessuto di rinforzo come il connettivo, che svolta la propria funzione venga digerito, si sceglie un diverso tipo di saprofita per colliquarlo, per cui si dovrebbe dire, “con “ piuttosto che “da”.

UNIVERSITA’ DELLA VITA

Erano pure gli anni dell’esordio dell’AIDS, il film “Philadelphia” spopolò, morirono illustri personaggi e parve allora divenire la peste del XX secolo. La paura del contagio assalì milioni di giovani come me che nel mondo della moda e in una Bologna disseminata di occasioni facili, serpeggiava come terrore di una possibile infezione.
Ognuno di noi con un po’ di attenzione alla non casualità degli eventi diventerebbe scopritore e sostenitore di un modo, di un metodo che esiste in tutte le dinamiche e così sarebbe lui il primo medico di se stesso: se implicassimo nella propria malattia il disagio, la paura, la menzogna o il bisogno che ci assillano e che non riesce a dire; è evidente che il linguaggio di questo proprio disagio avviene con dei sintomi peculiari e con dei saprofiti peculiari: confondiamo il becchino per il killer solo perché si trovano entrambi sul cadaveri! Ma l’avvoltoio è una forma più evoluta dell’aquila e ripone il suo sforzo evolutivo nella sopravvivenza alla carenza piuttosto che nel tripudio dell’abbondanza… La Sifilide è una malattia sociale, è la malattia di coloro che frequentano le prostitute, questa è la classe sociale, che dal punto di vista epidemiologico contraddistingue altri connotati importanti:
-la svalutazione sul piano personale delle prerogative del maschio;
-la mercificazione di una atto ad altissimo rilievo emotivo;
-l’assenza della peculiarità, indice di complicità e di scelta;
-perversione e dipendenza ad un mezzo extracorporeo come il danaro per realizzare istanze riferibili all’individuo e alla sua personalità/socialità.
Se valutassimo nel redigere un profilo epidemiologico del “soggetto a rischio” e introducessimo questi parametri valutabili sul piano sociale ma non quantificabili sul piano laboratoristico, emergerebbe il profilo della persona sensibile, cioè prevalenza e morbilità. Con queste condizioni psicologiche l’impatto e la possibilità del contagio e del conflitto sul piano psicologico e poi organico determinano una condizione di scadimento di tutte le prerogative umane, direi pure “collasso delle resistenze”. Il dramma di Niestche fu proprio quello di innamorarsi di una prostituta luetica al suo primo amore: l’impatto in quella rude realtà, ne scatenò un rimorso atroce che lo condizionò e ammalò per tutto il resto della sua vita fino alla pazzia, effetto della neurosifilide.
La condizione psicologica di questo senso di disagio è magistralmente descritto in “Un amore” di Dino Buzzati: la Adelaide rappresenta la fuggevole e incerta condizione di un amore patologico che oseremmo dire vissuto, per essere cosi autenticamente descritto. Che poi, nonostante la “internalizzazione” della malattia le donne siano più resistenti alla sifilide degli uomini, la dice lunga anche sulla conflittualità: la seduzione e l’abbandono pongono la donna più ferrata sulla questione del “contagio”, poiché anche lo spermatozoo stesso altro non è che un contagio programmato, cioè lo sviluppo di un corpo estraneo post-esposizione e che il senso di colpa sia maggiormente una prerogativa maschile per essere lui stesso il depositario storicamente della morale.

UN FULMINE A CIEL SERENO

Poi, nel bel mezzo del cielo sereno, arrivò la malattia di mia madre.
Mia madre era dei gemelli come mio padre, era una donna dotata di grande sensibilità e intelligenza, le sue doti di femminilità la portavano tuttavia a rappacificare le dinamiche ponendo come termine di partenza la propria nullità al cospetto degli altri. Si trovò impreparata quando a cinquant’anni scelse il pre-pensionamento che si sommò ad una questione delicata come il climaterio, per una madre di cinque figli. La costellazione familiare non le fu favorevole, anche sua madre morì precocemente in condizioni analoghe legate alla menopausa, cosi pure una zia impazzì e perì nello stesso contesto, ma non era sufficiente a spiegare. Anche noi eravamo impreparati alle avvisaglie delle sue piccole pene, manifeste da sempre come blocchi emotivi in vari organi, cominciammo quell’iter classico che consta di esami, controlli e visite specialistiche di ogni genere, dalla endocrinologia, alla tac, risonanza, neurologia, psichiatria e i primi psicofarmaci di terza generazione, derivati serotoninergici come la sertralina, ecc…
Il risultato di tutto ciò fu assolutamente negativo: i farmaci oltre a non sortire nessun effetto benefico o terapeutico mostravano qualche leggero effetto tossico, me era evidente la superiorità del suo male al farmaco stesso, di ogni natura esso fosse, compresi l' "effetto nocebo”.
La sera d’agosto del '91 che vidi mia madre muoversi troppo lentamente durante una consueta sua faccenda post prandiale, avvertii un brivido freddo che mi raggelò il sangue e il cuore cominciò a battermi forte: qualcosa mi preavvisava di una grande gravità. Cominciai a perdere numerosi i capelli, avevo 27 anni, non avevo alopecia nelle progenie, mio padre gode di una folta e salutare chioma, non associai allora l’inizio di calvizie, ma il tempo fu quello. Da allora la sua malattia ebbe una escalation negativa…
Pensai a tutte la visite, agli specialisti, agli esami laboratoristici, endocrini, ormonali, ecografici e radiografici, nulla, esiti negativi, tutti. Penso alle scatole di medicinali, psicofarmaci, dai bugiardini lunghi quanto l’apnea che precede un sospiro. Penso a quel mistero e oggi dopo dieci anni, penso che quel suo sacrificio mi abbia fatto crescere tantissimo, forse era ciò che meditava, il necessario per farmi crescere di più da grande, anche grazie a questo ho continuato un cammino di conoscenza, si chiama arte della trasmutazione. Eraclito affermò che ogni evento ha una sua duplicità, come ogni cosa, ebbene, anche per questo tragico, la duplicità ha rappresentato lo stimolo per continuare un percorso verso la verità ad ogni costo con un fine massimo: conosci te stesso. I medici non sono stati una delusione, ho trovato persone qualificatissime, umane e disponibili; è stata la filosofia della medicina che ha mostrato l’incapacità dell’interpretare la malattia. Da questo limite ne scaturisce pure quello terapeutico: facciamo diagnosi alla quale non consegue una cura, pare che questo limite possa essere superato solo dall’esorcismo.

IL MEDICO

Il medico è “mezzo”, diviene uno specchio impenetrabile attraverso il quale noi non vediamo che la nostra immagine, per questo ne rimane protetto, parimenti rimane suggestivo quando questa immagine riflessa ricalchi davvero la nostra forma, quando il medico ci descrive nella nostra totalità, e intraprende le possibilità di un cambiamento attraverso non la sola terapia. L’esorcismo non è più una terapia, poiché si avvale di metodi e suggestioni contro la volontà del paziente che deve essere prima sconfitto sul piano della convinzione e ridotto nell’ambito dell’umiltà che lo ritrova semplice e libero.
L’esorcista non conosce il manierismo compassionevole del medico, poiché avverte la malattia come un eccesso di convinzione, non di dubbio conflittuale; affronta il tradimento del malato nel suo errare in cerca di conversioni. lo psichiatra cade vittima di questa suggestione generata dalla forza mentale del malato psicotico stesso, può al massimo ergere la barriera dello specchio come una immagine del paradosso ma il soggetto psichiatrico non vede il proprio limite né il dubbio ed il medico soccombe e rimanda il giudizio attraverso lo psicofarmaco. L’esorcista coltiva attraverso la meditazione la propria convinzione, si esercita combattendo la stessa condizione che nell’onnipotenza genera la psicosi in ognuno, cerca dentro sé quel frangente comune, lo vive e lo trasmuta divenendo mezzo e arma, quando ha compreso e conosciuto che lo stesso male possa generare e curare.
Il medico ha una condizione passiva, attendistica, aspetta il paziente e lo cura quando la malattia lo ha reso umile e bisognoso, l’esorcista viene aggredito, corrotto e distolto dal suo cammino, il suo paziente è tutto tranne che umile, l’impossessato ha un eccesso di salute, e non intravede la morte ma il riconoscimento al suo stato, non vuole compassione ma riconoscenza, rende umile il medico soverchiando l’ordine. Ci sono troppi medici e pochi esorcisti, il medico convincente è quello che valuta la persona e ne descrive in maniera fine l’intento mancato, rimuove un organo o una funzione restituisce flussi e digestioni ma non svela incantesimi, ne pratica possessioni anche se le avverte tra le mani e nelle parole in ogni istante, ma non potendo liberare se stesso non libera nemmeno l’altro, questa è la differenza tra la terapia e l’esorcismo. L’esorcista ha una unica arma che è il pensiero e il “logos”. Il medico ha una serie infinita di terapie, ma il limite delle stesse è che nessuna sia coerente, sono solo “distrazioni” come stonature rispetto ad un concerto grosso, la musica non si ferma, perde armonia ma non cessa mai, la compassione non è terapia, la terapia è svolta da chi ama il paziente, ma il medico nel suo ruolo di giudice non può amare, ma il senso del giusto lo può ottener attraverso l’applicazione di una etica fondata su principi personali e sociali. La diagnosi è pure un giudizio, per questo il giudice come in una sentenza può personificare il medico che esprime un peso portatore di morte. L’esorcista non somministra terapie, passa attraverso lo specchio, lo infrange e rende reale quella condizione che si allontana dalla realtà. Queste insieme di esperienze hanno beneficiato di un dubbio e dell’insuccesso di un metodo analitico, di scomposizione delle singole parti perdendo il filo conduttore e la matrice di tutti i disagi che si complicano tra loro rendendo il quadro caotico e irrisolvibile.

L’INCONTRO CON L’OMEOPATIA

Un giorno da studente, mentre preparavo l’esame di farmacologia, trovai una strana definizione: «è la terapia che si avvale dello stesso male per ottenerne la guarigione… omeopatia», ricordo solo che tale concetto mi colpì e mi rimase nella memoria. Diversi anni dopo, un cliente mi raggiunse a casa con un cane in preda a crisi convulsive acute, il mio ritardo indusse i proprietari ad acconsentire un intervento non invasivo con un rimedio d’emergenza, al mio arrivo il cane si era già totalmente ristabilito, era stato Hubert, Hubert Bosch, oggi mio cognato, che con poche gocce di Nux vomica, salvò il cane dalla avvelenamento stricnico. Da quell’esordio vincente iniziò il mio percorso verso l’Omeopatia e la filosofia della medicina. Con l’olismo si sono aperte infinite porte alla conoscenza, la critica al metodo scientifico e l’approccio etico filosofico, seguendo questo atteggiamento di ribellione verso una scienza piena di dogmi, ma sempre più lontana dalla verità che appartiene all’uomo, ho conosciuto una quantità di divulgatori, ricercatori indipendenti, autori ed editori. Tutto ciò che avevo studiato è stato rimesso in discussione con un nuovo criterio che rifuggisse dall’antropocentrismo ritualizzato nel metodo, che l’uomo ha affinato con false garanzie per essere più certo. Il metodo meccanicistico non è a portata d’uomo,
Il darwinismo, o meglio il neo-darwinismo non spiega il perché delle mutazioni, il microbismo pasteuriano è il tentativo più azzardato di isolare l’uomo dalle possibili integrazioni nel suo stato di purezza antropocentrica, la malattia un evento indipendente dalla biologia. Quando lessi un estratto delle ipotesi di Hamer sul tumore, fu come lasciare il dorso di un asino e salire su di un jet, la medicina biologica Hameriana per intenderci è la più grossa rivoluzione medico-scientifica degli ultimi cinquecento anni. Tutti coloro che ne entrano a conoscenza reputano tali osservazioni più coerenti rispetto a qualsiasi altra ipotesi, i criteri Popperiani di lettura della stessa disciplina e delle leggi biologiche sono favorevoli per considerarla scientificamente esatta oltre la lettura stessa del processo neoplastico secondo il criterio invasivo degenerativo.
Oggi, dopo quarant’anni di vita vissuta osservando i processi naturali e vent’anni di professione medica sento la necessità di divulgare il pensiero multidisciplinare, proprio come la veterinaria, poiché i tempi sono propizi per fornire ai beneficiari del dubbio, un indizio ed un sostegno nella loro ricerca di verità.


David Satanassi, Medico Veterinario, diplomato in Omeopatia Classica, diplomato in Bioetica.






 

Informazioni


MEDICO VETERINARIO (BO '91) - Diplomato in Omeopatia Classica presso Società Medica di Bioterapie (RM) - Diploma Master Bioetica presso Università Pontificia Regina Apostulorum (RM) - Corsi in Medicina Biologica-Nuova Medicina presso Università Popolare (MI). - Copyright © 2011 -

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